una proposta per le scuole: la Shoah, passando per Srebrenica
http://new.cgil.bergamo.it/biblioteca/index.php/iniziative/in-calendario/39-progetto-per-le-scuole-la-shoah-un-orrore-irripetibile/event_details
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Dopo la scissione sindacale del 1948 - che a Bergamo si trascina per diversi mesi, fino a quando i dirigenti nazionali cattolici impongono ai sindacalisti aderenti alla loro componente di lasciare definitivamente la Camera del lavoro - la Cgil, che già non era ricca, conosce momenti di drammatica povertà, che non si traduce solo in stipendi mai versati se non per acconti sporadici, ma nella fame vera e propria, nel non avere spesso di che vestire i propri figli, nei caloriferi e nelle stufe mai accese, nel disperato bisogno di solidarietà concreta da compagne e compagni che, pur con salari miseri ma certi, contribuissero alla ripresa.
La consapevolezza del clima che regna in Italia e nella nostra provincia in particolare (con la Madonna Pellegrina che corre su e giù per ogni parrocchia, cortile, fabbrica, solo per citare un esempio), porta i due segretari in carica allora, il socialista Zampese e il comunista Cassani ad evitare espliciti riferimenti sia alla scissione che alla Cgil, promuovendo per il Primo maggio 1949 questa raccolta per il Fondo di Resistenza proletaria e utilizzando l'immagine del Quarto Stato di Pellizza da Volpedo che anche in questo modo entra nell'immaginario dei compagni. Per anni, ad ogni apertura di nuova sede o recapito fisso, arrivava qualcuno a chiedermi una copia de Il Quarto Stato, l'unico quadro ceh davvero non poteva mancare in quei locali. (ev)
Grazie a Roberto Villa, che segnala questo documento riordinando fondi dell'Archivio storico cgil bg
RILETTI PER NOI, di Sara Valoti
IL PANE, LE ROSE, LA GUERRA: LE DONNE DI MIRIAM MAFAI
L’8 settembre 1943 è una data controversa per la storia degli italiani: c’è chi lo definisce il giorno della “morte della Patria”, della vergognosa fuga del Re, dei soldati lasciati in balia degli eventi senza ordini né disciplina, e chi, invece, lo considera il giorno in cui una nuova Patria è germogliata dalle ceneri della precedente. Storicamente, si può affermare che il fenomeno comunemente noto come Resistenza nasca in quei giorni di settembre, dai soldati che rifiutano di obbedire all’ “Ordine Militare Ultimo” e si rifugiano sulle montagne, armandosi con lo scopo di cacciare definitivamente i nazifascisti.
Gli eroi riconosciuti della Resistenza sono loro; sono loro i liberatori della patria.
Come sempre avviene, eroe è una parola declinata al maschile.
Ma la guerra e la Resistenza l’hanno fatta anche le donne, che durante il conflitto hanno affrontato un lungo e doloroso processo di emancipazione, una sorta di “mutazione genetica”.
All’inizio, nel 1940, sono donne felici, che sventolano fazzoletti mentre guardano i loro uomini partire fieri per “la guerra del Duce”.
Subito dopo, le donne – come era già successo durante il primo conflitto mondiale - divengono lavoratrici, che vanno in fabbrica per sostituire i loro uomini al fronte, che guadagnano, e gestiscono il “loro” denaro, stretto fra le mani come una bandiera, ma che imparano anche che il loro lavoro e la loro dignità sono valutati la metà di quelli di un uomo.
Dopo l’8 settembre, ci sono donne che decidono di rischiare, e che portano nella borsa della spesa la propaganda antifascista che può farle finire in galera o nelle celle di tortura.
Donne umiliate e tradite.
Donne partigiane.
Mogli devote o donne condannate dalla guerra ad un nubilato già simile ad una vedovanza.
Madri sfiancate dalle troppe gravidanze e donne giovani che non avranno figli.
Sono queste le donne la cui vita è narrata da Miriam Mafai nel suo libro Pane nero, edito nel 1985 e poi nel 2008 da Ediesse [1] e recentemente ristampato in edizione scolastica.
Sono donne che, prima della guerra, aderiscono, con maggiore o minore entusiasmo, ai precetti fascisti che le obbligano ad essere “semplici, sobrie, affettuose, modeste.”
Il conflitto le spinge a combattere una loro guerra privata, a lottare per diritti di cui divengono improvvisamente coscienti e ad acquistare un’identità politica e sociale mal tollerata dai loro mariti o dalle donne delle generazioni precedenti.
Il rosso, il colore del sangue versato (anche) da loro, sarà lo stesso dei fazzoletti che orgogliose sventoleranno per le strade a guerra finita, per rivendicare un ruolo ben presto messo in discussione dagli uomini che tornano.
Le loro lotte nelle fabbriche militarizzate, nei campi di riso, nei lager tedeschi, infatti, verranno, al ritorno degli uomini, declassate a semplice “supporto logistico”, ad attività per loro stessa natura maschili.
E dovranno rimettersi al loro posto di custodi del focolare “fino alla prossima trasgressione”.
Queste donne vincono e perdono sul campo battaglie troppo spesso considerate “cosa del passato” dalle donne di oggi.
Le donne di Miriam Mafai, dunque, stanno lì a ricordarci cosa accade quando le bandiere di una lotta sanguinosa vengono ammainate per pigrizia, capriccio o sottomissione.
Ce lo ricordano, in questo nostro tempo di revisioni in cui sembra che “farsi mantenere” da un marito, o comunque da un uomo, torni ad essere, per molte donne, il più desiderabile degli stili di vita.
Queste donne – le nostre madri, le nostre nonne - ci invitano a combattere ogni giorno di nuovo la battaglia per le nostre convinzioni.
Per sempre resistenti.
SETTEMBRE 2015
Da due eravamo diventati tre partigiani ma, per il momento, uno dovevo portarlo in groppa
Contro la monumentalizzazione della Resistenza imposta innanzitutto dal partito in cui milita, Brighenti rompe gli schemi e dedica il libro in cui ricostruisce le vicende della 53° Brigata Garibaldi al suo cagnolino, il Bibi. Sia chiaro, non è la Resistenza vista con gli occhi di un cane, bensì l'occasione – più o meno consapevole – di raccontare un'esperienza fondante, avventurosa e straordinaria, irripetibile e formativa con uno schema che si toglie dalla struttura delle "vite dei santi" a cui invece tanti partigiani si ispirano. Il Brighenti ridà voce e fisicità ai protagonisti di quella vicenda, descrivendone luci e ombre, e questi non sono solo i suoi compagni, o i partigiani delle altre bande, o al più il nemico: sono i protagonisti del suo mondo di ragazzo di una frazione collinare della provincia bergamasca che viene da una famiglia contadina e emigrante: sono gli anziani, sono i contadini, sono i giovani, sono soprattutto le donne, quell'anello forte a cui ha dato voce Nuto Revelli e che anche per il Brach sono i capisaldi della vita. E sono gli animali, il Bibi, certo, ma l'oca della Crista, l'asino del moina, le galline della Genoara, ma anche i pidocchi e le pulci....uno zoo fantastico ma assolutamente reale.
Un libro da leggere, da rileggere, da far leggere e spiegare anche ai bambini, ai nostri ragazzi (e non spaventiamoci, se per loro sarà come leggere di dinosauri e draghi, il tempo della storia cambia a seconda della prospettiva degli anni con cui la si vive): perché è un bel libro, è un libro avvincente, perché parla di quei venti mesi con gli occhi di un protagonista che sa raccontare, e perché è pieno di una profondissima umanità, come vi dicevo, di una solidarietà (Mario Ravaglia, di Giustizia e Libertà che li affianca per i rifornimenti, e Bepi Lanfranchi, comandante della Brigata GL "Camozzi" che manda i viveri per il giorno del durissimo Natale 1944) e di un senso di giustizia profondo. Un esempio su tutti: il partigiano che viene giustiziato perché tenta di consegnarsi ai fascisti mettendo a rischio il resto della brigata ha diritto alla comprensione, ma non all'assoluzione. E se alla fine vi viene voglia di saperne di più, ricordatevi che Brighenti ha scritto un altro libro di memorie (Dopo il mese di aprile. autobiografia di un giovane comunista 1945-1953, Bergamo, 1987) ma anche di tanti altri libri e documenti, testimonianze edite o conservate all'Isrec e non solo).
Giuseppe Brighenti, Il partigiano Bibi, Bergamo, 1983 (ristampa 2015)
Ev, agosto 2015
[...] Nel bilancio delle famiglie italiane la percentuale riservata all'alimentazione passa dal 53, 4% del 1938 al 73, 7% del dicembre 1944.
A Bergamo dove le fabbriche con più di mille addetti sono rare, i comportamenti operai sembrano ancora più condizionati dalla pesantezza della situazione materiale, e dal fatto che la funzione di tutela della fabbrica, di pari passo con il rinforzarsi delle pratiche e dei tradizionali vincoli paternalistici, viene acquistando un peso maggiore che in passato (un testimone intervistato per una ricerca della "Di Vittorio" ricorda come un privilegio la possibilità che avevano gli abitanti del villaggio operaio di Crespi d'Adda di andare a scegliere tra gli scarti di fabbrica pezzi di carbone per alimentare le stufe). La fabbrica diventa un luogo dotato di capacità organizzativa, come centro di raccolta e di smistamento di cibo, oltre che di copertoni per la bicicletta o altro. "La fame della seconda guerra mondiale è più biblica ma meno riconducibile ad ingordigia padronale". Così gli industriali si devono dare da fare non solo per reperire materie prime per la fabbrica ma anche per i lavoratori. Una delle più rilevanti aziende locali, l'Italcementi , pure indicata nella relazione Belli, non partecipa in maniera decisiva agli scioperi (anche perché sostanzialmente inattiva per il grave problema di reperimento della materia prima) ma non rimane esclusa da queste vicende, con l'arresto nel luglio 1944 di Carlo Pesenti, accusato di antifascismo e di eccessiva condiscendenza verso gli oppositori al regime, nonché – addirittura – di aver commissionato insieme ad altri dirigenti l'omicidio dello squadrista Favettini. Nella memoria difensiva di Antonio Pesenti, che diventa Commissario dell'azienda, così si legge: "Si è voluto da taluni fare apparire questa nomina a Commissario come una designazione di natura politica...[ma] piuttosto che permettere, dopo averle dato tutta la sua vita, che la Società andasse a finire nelle mani di qualche incompetente e intollerante gerarca...col danno sicuro dell'impresa, degli operai e dell'opera di sabotaggio antinazista in corso di sviluppo, il sottoscritto dovette fare buon viso a cattivo giuoco e accettò la nomina per mantenere la Società sulla via sicura per la quale l'aveva guidata per 35 anni.[...] "salvare il più possibile gli impianti, le materie prime e i prodotti, ...tutelare la numerosa mano d'opera dal minaccioso pericolo delle deportazioni, ...far trovare pronta per i compiti della ricostruzione quasi tutta l'imponente attrezzatura tecnica e amministrativa del ramo". In effetti, nessun dipendente dell'Italcementi venne deportato in Germania e non vengono nemmeno sostituiti i consiglieri ebrei della società. Il 26 marzo 1945, sempre Antonio Pesenti così riferisce agli azionisti, nella Relazione di Bilancio 1944: "Oltre ad avere mantenuto in efficienza tutte le Mense Aziendali, migliorando nel limite del possibile qualità e quantità delle somministrazioni, si è dato largo impulso agli Spacci specialmente di generi per l'alimentazione; altre provvidenze vennero attuate per venire incontro ai bisogni dei nostri dipendenti, impiegati ed operai. Ciò ha comportato, nell'esercizio in rassegna un onere notevolissimo che la Società ha affrontato con senso di compassione e umana solidarietà".[...] Dalla Relazione sugli scioperi a Bergamo nel 1944, di Marcandelli e Valtulina
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