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LA MOSTRA RI(SCATTI) . VOLTI E LUOGHI DI UNA BERGAMO IN MOVIMENTO

RI(SCATTI)
Volti e luoghi di una Bergamo in movimento nelle fotografie di Sergio Cisani
1970-1974
Raccontare gli anni Settanta è assai difficile.
Attribuire loro una precisa dimensione storica lo è di più, perché troppo poco è il tempo che ci separa da quel periodo; troppe e troppo profonde sono le polemiche suscitate da alcuni dei fenomeni che hanno attraversato quell'intenso decennio, sbrigativamente ridotto alla seducente ma ambigua etichetta di "anni di piombo", soffocando nella memoria degli stessi protagonisti la stagione dei diritti che pure hanno rappresentato.
Per restituirne al presente una visione non stereotipata bisogna affidarsi a fonti ancora troppo poco sfruttate dalla storiografia e che possono rivelarsi invece preziosi strumenti di indagine e di analisi. È da questa consapevolezza che proviene la scelta di proporre una mostra delle fotografie scattate da Sergio Cisani tra il 1970 e il 1974. Lungi dall'essere gli scatti ingenui di un principiante, le immagini mettono efficacemente in rilievo uno degli aspetti fondamentali degli anni Settanta: la straordinaria e inedita partecipazione politica che li ha caratterizzati.
Giovani, donne, operai diventano improvvisamente visibili, incarnano in quel decennio un protagonismo che si traduce spesso nell'occupazione di piazze, strade, scuole e fabbriche, che vengono rivendicate come luoghi di lotta per la conquista dei propri diritti e, nel contempo, come spazi di aggregazione sociale.
Bergamo, che affonda le proprie radici sociali nella cultura cattolica, non si sottrae al processo di ringiovanimento dei territori urbani che scuote allora tutta l'Italia. Queste fotografie fissano alcuni dati di quel tempo e della nostra città, contributi preziosi alla custodia e alla preservazione di una labile memoria.
Il merito di Cisani è proprio quello di essere stato capace di cristallizzare tale processo. Fotografando i bergamaschi che scendono nelle strade del capoluogo orobico e che si spostano poi in altre città per partecipare a manifestazioni operaie o pacifiste, riesce a costruire una autentica narrazione che si dipana lungo cinque anni: uno spazio breve eppure zeppo di trasformazioni. Se è vero che la fotografia dice molto di chi l'ha scattata, Sergio Cisani si dimostra uomo attento e sensibile ai volti, alle piazze e alle voci che lo circondano. Le tre sezioni in cui idealmente abbiamo diviso l'esposizione stanno lì a rappresentare una non comune abilità nel cogliere uno dei dati che sostanzia il periodo a cui risalgono i suoi scatti: il movimento. Le fotografie dedicate alle manifestazioni, così come quelle che si concentrano sui visi e quelle che invece immortalano momenti di canto sembrano infatti suggerire proprio questa tendenza all'azione collettiva. L'insieme, e non il singolo: volutamente non ci sono nomi, pure se tanti si e riconosceranno, persino Pier Paolo Pasolini con una cinepresa in spalla.
Scatti anche per riscattare, dunque, quasi a indicare il bisogno di liberare le interpretazioni su quel periodo dall'ingombrante etichetta di "lunga e coerente anticamera alla lotta armata" e gettare una luce diversa sulla generazione che lo ha abitato. Una generazione che allora ha tentato e che poi in buona parte si è persa ma che oggi – senza abbracciare nessuna retorica reducistica – chiede di vedere riabilitata la propria storia di passione e partecipazione politica in un presente sempre più atomizzato, destabilizzante e arido.

Questa mostra è frutto del lavoro collettivo di Sergio Cisani, Emma Daminelli, Luisa Marini, Serena Mosconi, Fabio Testa, Eugenia Valtulina e Roberto Villa.

CERCAVAMO LA PACE. UN SEMINARIO VENT'ANNI DOPO LA GUERRA NEI BALCANI

Cercavamo la Pace: mobilitazione civica e politica internazionale

E' possibile un attivismo civico dal basso nella politica internazionale? Se ne dibatterà a vent'anni dalla grande mobilitazione di solidarietà popolare con i Balcani che attraversò l'Europa e a partire dalla presentazione dei risultati finali della ricerca "Cercavamo la pace". 

Cercavamolapace

Programma

14:00 - Saluti
- Sara Ferrari, Assessora, Provincia autonoma di Trento
- Marco Brunazzo, Direttore, Centro Europeo di Eccellenza Jean Monnet - Università di Trento
- Michele Iori, Presidente, Fondazione Cassa di Risparmio di Trento e Rovereto
- On. Ministro Paolo Gentiloni*, Ministero degli Affari Esteri

14:15 - Apertura dei lavori
Luisa Chiodi, Direttrice scientifica, Osservatorio Balcani e Caucaso

14:30 - Cercavamo la Pace: l'Italia, i casi locali, lo sguardo transnazionale
Presentano la ricerca:
- Marzia Bona, Osservatorio Balcani e Caucaso
- Marco Abram, Osservatorio Balcani e Caucaso
- Sebastiano Benasso, Università di Genova
- Anna Cossetta, Università di Genova
- Bojan Bilić, Università di Amsterdam

Discutono i risultati della ricerca
- Roberto Belloni, Docente, Dipartimento di Sociologia e Ricerca Sociale - Università di Trento
- Eugenia Valtulina, Responsabile, Biblioteca Di Vittorio Bergamo
- Giuseppe Ferrandi, Direttore, Fondazione Museo storico del Trentino
- Camillo Zadra, Provveditore, Museo Storico Italiano della Guerra
- Mario Diani, Docente, Dipartimento di Sociologia e Ricerca Sociale - Università di Trento

17:30 - Tavola rotonda: quale futuro per la partecipazione civica alla politica internazionale?
- Giovanni Scotto, Docente, Dipartimento di Scienze Politiche e Sociali - Università di Firenze
- Agostino Zanotti, Presidente, Associazione ADL a Zavidovići
- Silvia Maraone, Responsabile attività in BiH, Istituto Pace Sviluppo Innovazione Acli
- Gianni Rocco, Associazione per la Pace / Padova con i Balcani 
- Stefano Rossi, Centro per la Formazione alla Solidarietà Internazionale
- Fabrizio Bettini, Attivista, Operazione Colomba
- Mario Boccia, Fotografo e giornalista
- Massimiliano Pilati, Presidente, Forum trentino per la Pace e i Diritti umani

Modera: Luisa Chiodi, Osservatorio Balcani e Caucaso

Lo Statuto dei lavoratori e l’articolo 18

Lo Statuto dei lavoratori e l'articolo 18
di Francesco Ciafaloni

Il senso della protezione giuridica dei lavoratori stabili
Sembra, a leggere molti giornali, che la difesa giuridica dei lavoratori abbia a che fare col posto a vita, con gli inetti e sfaticati; che riguardi pochi privilegiati; che sia un intrigo di cavilli che esclude e costringe alla disoccupazione e alla precarietà giovani e meno giovani. Un residuo dei tempi del boom in cui c'è stato un eccesso di retribuzioni e garanzie che "non possiamo più permetterci", come si usa dire. L'articolo 18 dello Statuto è diventato il simbolo del rifiuto del nuovo, della rigidità, del "conservatorismo sindacale". Un simbolo da abbattere – o da difendere. Come fa un giudice a decidere se quel lavoratore è utile o no, se è capace o incapace? è il mercato che deve decidere, si sostiene.
E' utile ricordare che l'articolo 18, nella sua forma originaria, non attenuata, obbliga l'azienda al di sopra della soglia dei 15 dipendenti a reintegrare nel posto di lavoro solo chi sia stato ingiustamente licenziato per la sua fede religiosa, per la sua appartenenza politica o sindacale, perché si è sposato/a, perché è incinta, per motivi razziali, per motivi di genere. L'elenco dei casi è facilmente accessibile nelle prime righe dell'articolo, con la sola fatica, in alcuni casi, di digitare il nome e il numero della legge che li precisa. Se non sono vietati i licenziamenti per questi motivi e non c'è il reintegro diventano parole vuote le norme a difesa della maternità. Diventano vuote per i lavoratori dipendenti le libertà religiose e politiche; diventa vuota la democrazia. Cosa se ne fa una lavoratrice incinta dei mesi di retribuzione in più se perde il lavoro?
Cosa se ne fa l'operaio/a licenziato per le sue idee politiche o sindacali, con la lettera scarlatta che gli è stata incisa in fronte? Non c'è molto da aggiungere. Non si tratta di economia ma di libertà. La modifica Fornero in sostanza, oltre a variazioni procedurali, ha introdotto la legittimità del licenziamento individuale per motivi economici – quella determinata qualifica non è più necessaria – che è assai diverso dagli altri casi. Non poteva fare altro se non negando l'intera Costituzione per i lavoratori dipendenti. La necessità di fingere un mutamento per accontentare le parti ha solo complicato i testi e le procedure. C'è già una giurisprudenza con opposte interpretazioni.
La controversia vera ha riguardato infatti le modalità dell'intervento della magistratura in caso di licenziamento ritenuto illecito. Qualcuno deve decidere se un licenziamento è avvenuto per scarso rendimento o indisciplina o perché il licenziato è ebreo, musulmano, comunista, nero – o la licenziata è incinta. Lo fa il giudice. Ma il giudice interviene subito o a cose fatte e irrimediabili? E di chi è l'onere della prova? Se il giudice può intervenire rapidamente, allora il licenziamento non è ad nutum, come si diceva: con un cenno, a volontà.
Alcuni penseranno che il problema sia il reintegro degli estremisti politici; ma si sbagliano. Il caso Fiat non riguarda gli estremismi ma la legittimità dei sindacati non firmatari. Il vero problema del caso Fiat è la cassa integrazione speciale, interamente pagata dall'Inps, per anni, anche per i lavoratori che per età e condizioni fisiche non verranno mai riassunti, anche se Marchionne smetterà di raccontare frottole. Ci vorrebbero invece decenti condizioni di uscita: lavori part time; riqualificazione.

sinistra destra

Quanto ci costa la protezione giuridica
Chi sostiene l'abolizione dice che la difficoltà di licenziare, cioè che sia necessario seguire una procedura, che non si possa licenziare sui due piedi, come si dà un qualunque altro ordine al lavoratore, spaventa le aziende; le obbliga a ricorrere al lavoro precario, a subappaltare. Rende difficili le assunzioni a tempo indeterminato. Spinge a restare al di sotto della soglia dei 15 dipendenti.
Io sosterrei che, qualunque sia il costo economico, bisogna mantenere lo stesso la protezione giuridica perché il costo civile e sociale dell'abolizione sarebbe più alto. Ma il costo economico non c'è perché, in certo senso, il danno c'è già stato per vie traverse.
Il grafico (fonte Banca d'Italia) del numero delle aziende per numero di addetti non ha alcuna discontinuità alla soglia dei 15 come avverrebbe se anche solo alcuni ci tenessero a restare a 14. Purtroppo il numero dei lavoratori dipendenti non difesi è già altissimo. La solita Cgia di Mestre ha fatto i conti. Data la polverizzazione del sistema produttivo italiano e il numero estremamente alto di aziende con un solo dipendente, solo il 3% delle aziende supera i 15 dipendenti ed è interessato dall'articolo 18. Si tratta però di aziende relativamente grandi o grandissime. Se si includono nel totale dei dipendenti anche le partite Iva (come, tipicamente, i muratori – lavoratori finti autonomi), è protetto dall'articolo 18 il 45,5% del totale, contro il 54,5% che non lo è. Se si escludono, negando la dipendenza di fatto, è protetto il 63,5%, contro il 34,5% che non lo è.
Inoltre tutti sappiamo che è frequente la pratica dell'assunzione con lettera di dimissioni incorporata, in caso di eventuale maternità, e non solo. Che la pubblica amministrazione è diventata la massima fonte di precariato per il blocco delle assunzioni, la facile scappatoia delle assunzioni a progetto per spostare dalla spesa corrente agli investimenti una parte del costo del lavoro e privilegiare la stabilità per meriti di partito. Inoltre la pressione dei disoccupati, la ricattabilità dei lavoratori non cittadini italiani, la minaccia costante del trasferimento a est o della concorrenza delle peggiori condizioni di lavoro nei nuovi stati membri della Ue, in pratica rendono debolissima ogni resistenza sociale. I migranti sono stati assolutamente necessari economicamente (che lavorino in nero o in regola) e lo restano demograficamente, ma certo costituiscono un esercito di riserva, come si diceva una volta, e contribuiscono a tenere bassi salari e diritti.
E quante sono le controversie legate all'articolo 18? La Cgia di Mestre riporta che il dato più recente è del 2006: 8651 cause, poco più dell'un per mille dei lavoratori interessati. "Il 44,8% delle cause si chiude con un rigetto della domanda, mentre in appello la soglia sale al 63,1%."
Ma allora, si potrebbe dire, tanto rumore per nulla. Stiamo montando una storia infinita per qualche migliaio di reintegri su poco meno di otto milioni di lavoratori interessati mentre intanto le ragazze che lavorano non possono fare lo stesso figli e, passata la prima giovinezza, smettono di lavorare. Il guaio è che, proprio mentre si ridiscute lo Statuto, come avverrà a settembre, se si dimenticano i diritti civili e politici, si finisce col reintrodurre la servitù per tutti, non solo per i precari. La difesa di quasi tutti i lavoratori è scesa a livelli che non si vedevano dagli anni cinquanta. Riscrivere lo Statuto dovrebbe voler dire affrontare la difesa giuridica e il welfare per i precari, i parasubordinati, non negare i diritti costituzionali agli assunti a tempo indeterminato. Il rischio è che i giovani disoccupati o assai saltuariamente occupati si convincano che qualunque lavoro, a qualunque condizione, sia meglio di nulla. Che non rivedranno mai i contributi assicurativi e pensionistici che le aziende versano per loro e che perciò sia meglio abolirli. Che il diritto di sciopero non li riguarderà mai; che organizzarsi sindacalmente sia per loro impossibile. Che sia in corso una americanizzazione a livello infimo. è con i giovani disoccupati e per loro che bisogna riscrivere lo Statuto; e organizzarsi soprattutto socialmente, non solo giuridicamente.

La necessità della protezione giuridica dei lavoratori precari
Il lavoro non c'è perché la scuola non assume, la Sanità non assume, la Pubblica amministrazione non sostituisce il turnover, le aziende non investono, non facciamo ricerca e formazione adeguata. Perciò non mi faccio illusioni. Le leggi arrivano alla fine di un processo sociale, non lo precedono. Illudersi che si possa, in questo Parlamento, scrivere uno Statuto all'altezza delle vecchie socialdemocrazie aiuta solo a completare l'aggiramento delle tutele esistenti. La cultura dominante sostiene, a torto, che i problemi dell'Italia sono l'alto costo del lavoro, per le trattenute assicurative e previdenziali, la Sanità pubblica, la protezione dei contratti, cioè le poche istituzioni che ancora tengono insieme la società. Dopo la generazione dei sindacalisti Padri della Patria, dei Di Vittorio, dei Foa, dei Carniti, dei Trentin, abbiamo avuto e abbiamo segretari che in sostanza si sono chiusi a parziale difesa dei già difesi, scaricando fuori il resto. La cosiddetta riforma delle pensioni ha creato, nella generale crisi, una generazione esclusa. Si può solo impedire, culturalmente e politicamente, che si completi il disastro. Ed enunciare qualche criterio o principio per resistere socialmente, anche sulla base di leggi migliori.
Lo Statuto è necessario perché i lavoratori sono la parte debole, salvo i casi di servizio privato o di aziende minime, quando i rapporti si presumono più simmetrici. Lo sono oggi assai più di 45 anni fa. Per loro il mondo è cambiato in peggio. Bisogna evitare che si arrivi al rovesciamento della protezione; alla esecuzione obbligatoria del contratto da parte del dipendente, invece del diritto alla giusta causa. è questo che avviene nei contratti stile Marchionne, che prevedono la rinuncia al diritto di sciopero accettata individualmente all'atto della firma.
Forse la prima forma di difesa dei precari deve essere assicurativa: il ricongiungimento dei contributi versati in varia forma; il sussidio nelle fasi di disoccupazione, a certe condizioni; la sommabilità della pensione assicurativa pubblica a quella sociale, per non rendere inutili i contributi versati; la protezione in caso di maternità; la possibilità, difficile ma non impossibile, almeno nei subappalti da enti pubblici, di contestare i mancati rinnovi di contratti a termine o a progetto in caso di discriminazione o persecuzione (per via amministrativa, non giudiziaria, che presuppone la commissione di veri e propri reati da parte del datore di lavoro).
Certo la forma più efficace di protezione è la rimozione delle cause che hanno creato la debolezza dei lavoratori: la formazione di leghe, di vere cooperative, di gruppi di mutuo soccorso, di acquisto solidale (di cui ci sono molti esempi) diminuirebbe la polverizzazione. Bisognerebbe organizzarsi per costruire una decente formazione per il lavoro, che è uno dei punti deboli del sistema italiano. Bisogna chiedere, tutti, cittadini e non cittadini, un rapido accesso alla cittadinanza, e quindi ai diritti, dei lavoratori immigrati. Gli stranieri abbassano il livello dei diritti perché non votano, rischiano il permesso di soggiorno se perdono il lavoro, e sono ricattabili.
Naturalmente le assunzioni dirette da parte di enti pubblici, come sostiene da anni, tra gli altri, Luciano Gallino, per lavori indispensabili di difesa del territorio o di assistenza, sarebbero risolutive; come lo sarebbe il finanziamento pubblico della ricerca, che, tra l'altro, creerebbe lavoro.
Sono processi lunghi, non direttamente legati alla difesa giuridica; ma ne creano le premesse. Abbiamo impiegato più di un terzo di secolo a cacciarci in questo pasticcio. Non ne usciremo in qualche mese; e non ne usciremo senza aprire le porte a chi arriva, per salvarsi la vita, ma anche per lavorare.
Da: http://www.sinistrainrete.info/lavoro-e-sindacato/4127-francesco-ciafaloni-lo-statuto-dei-lavoratori-e-larticolo-18.html

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