Cinema e lavoro appaiono da sempre legati, e non a caso il primo film che sia stato pensato per una proiezione pubblica e continuativa, a pagamento, nel 1895, è, come molti sapranno, è La sortie des usines Lumiere (Uscita dalle fabbriche Lumiere), della durata di 50 secondi. Camera fissa e lunga sfilata dei lavoratori di una fabbrica che escono dallo stabilimento. In testa gli operai e alla fine i padroni su una carrozza, seguiti da un usciere che chiude i battenti.
Due erano i modi in cui il cinema si metteva in relazione con il mondo del lavoro: attirava gente comune, diventando il primo vero intrattenimento di massa, e interpretava la realtà sociale, portando sullo schermo la vita dei lavoratori.
Il neorealismo italiano è stato il primo coerente tentativo di illustrare le condizioni sociali di un’Europa distrutta dalla guerra.
Ma l’idea comune è che, al botteghino, il lavoro non “vende”, il cinema pare nell’idea ancora legato indissolubilmente allo svago dalla vita quotidiana, e quindi le pellicole dedicate al mondo del lavoro sono state generalmente relegate ai cosiddetti documentari: gli industriali hanno spesso fatto riprendere la “gioiosa” attività nelle loro fabbriche (un esempio illuminante lo ha fornito la mostra Dalmine. Dall’impresa alla città, recentemente allestita al Teatro sociale in città alta), i sindacati o le organizzazioni politiche hanno altresì fatto documentare le lotte o le ingiustizie subite dalla classe operaia.
Non mancano certo esempi alti e straordinariamente efficaci tra i film, che fanno ormai parte della nostra rappresentazione del contemporaneo: l’alienazione prodotta dal lavoro è da quasi un secolo rappresentata con l’omino di Chaplin di Tempi moderni inghiottito dagli ingranaggi, e il titolo del film di Petri, La classe operaia va in paradiso, è entrato nel lessico comune (senza che peraltro la maggior parte di chi usa questa espressione abbia mai visto il film…).
Se i film sul lavoro sono una minoranza, vi sono comunque professioni e mestieri particolarmente predilette: avvocati, medici, telefoniste, poliziotti, modelle, commesse, militari, giornalisti, minatori. Salvo quelle di operaio e di contadino, le più trascurate.
Dopo un certo disinteresse degli anni Ottanta, in questi ultimi tempi il tema del lavoro è tornato ad essere centrale in molte pellicole, italiane e non, forse perché questo è profondamente cambiato, almeno da come eravamo abituati a pensarlo: prima di tutto, è più instabile che flessibile, non garantisce né qualifiche sociali né redditi certi, spesso uccide o fa ammalare, non solo fisicamente ma di nuovo anche psichicamente con le oppressioni e le persecuzioni senza logica…insomma tutto ciò ognuno di noi conosce benissimo. E, incredibilmente, i film sul lavoro incassano anche molti soldi quando escono nelle sale.
Con queste locandine proponiamo un percorso rapidissimo attraverso il cinema che parla di lavoro non “documentandolo” – e da questo punto di vista innumerevoli sono i contributi che esistono, in Italia e altrove – ma “raccontandolo” , attraverso il linguaggio della narrazione, trasponendo ed esasperando una realtà per ottenere una riflessione, attraverso i diversi stili propri della cinematografia: il registro comico( tempi moderni), la denuncia ironicamente surreale (la classe operaia), la denuncia “psicologico-pedagogica” (Mobbing)
Presso i mezzi di comunicazione che fanno della visibilità la loro condizione di esistenza (cinema, televisione) la quotidiana dannazione biblica al lavoro è invisibile. Ciò che non viene raccontato è il lavoro , qualsiasi lavoro, nei suoi aspetti veritieri problematici. La finzione non ha voluto o saputo immaginare, se non raramente, il lavoro come parte integrante, condizionante, di una vita; il lavoro come processo, sequenza di gesti, fatica, soddisfazione, relazione con utensili, con altri uomini, tempo di esistenza, fondamento di identità…
Le immagini del lavoro e dei suoi mutamenti di cui oggi disponiamo sono purtroppo largamente insufficienti a rendere conto del passaggio epocale che stiamo vivendo: la precarizzazione del lavoro, la flessibilità, gli oggetti “immateriali”. Mai come oggi il lavoro è respinto ai margini della comunicazione (infatti in “Mi piace lavorare” il lavoro non si vede più, al massimo è la ripetizione a fare fotocopie). Lavoro non più raccontato, sia negli aspetti nuovi connessi ai cambiamenti avvenuti, sia negli aspetti storici, legati a mestieri e a forme di impiego ormai sparite o in via di sparizione. Non rimane traccia delle trasformazioni profonde, né si trasmette memoria del lavoro che fu.
Eppure, là dove il cinema – fiction e non – si è incaricato di raccontare e rappresentare, ha dimostrato la straordinaria capacità delle immagini in movimento di testimoniare il cambiamento del paesaggio umano e sociale.
IL LAVORO STANCA, LA LOTTA FA PAURA ( la fabbrica dei sogni occulta la fabbrica incubo), quello del lavoro è un mondo solo debolmente incantatore e poco suscettibile di essere a sua volta incantato dal cinema, se non sotto forma di incubo (Metropolis o Tempi Moderni). La condizione opearia è meno spettacolare dei gesti dell’operaio. Il corpo operaio, ridotto ai significanti del fascio di muscoli o del sudore che li imperla, è esattamente il livello di copro e il livello di operaio che i chip possono sopportare. Al di là di questo c’è disagio, silenzio, buco nero. Son più che rari i film che non si accontentano né della danza dei corpi operai, né del ritornello degli slogan; che tentano di passare dall’esterno all’interno, di dar conto di una storia, di una vita, di un pensiero, dell’inserimento di un corpo in una tensione, in una lotta.
La situazione degli operai, che già non era brillante, è diventata letteralmente opaca:non c’è più niente da vedere perché non c’è più desiderio di vedere questo. Gli operai di oggi non sono assolutamente più quelli del 1968; rispetto ad allora non sono meno reali, sono fatti della nostra stessa carne, vivono, amano, soffrono e soprattutto lavorano, qui e ora. Noi come loro. Salvo il fatto che loro sono nel posto sbagliato, perdenti del presente e perduti della storia. Questo posto duplice è quello della scomparsa del mondo operaio, non come realtà dello sfruttamento, ma come immaginario dell’emancipazione.
(e.v. 2005)